Ei mou

Roberto Beccantini16 gennaio 2024

Era nell’aria, ma così è una bomba, non un petardo. José Mourinho esonerato dalla famiglia Friedkin. Arrivederci Roma. Senza se e senza ma. I risultati, naturalmente: la sconfitta di San Siro con il Milan, il k.o. nel derby di coppa, un nono posto in classifica che non risponde alle attese (e neppure al sesto della mia griglia estiva). La sindrome della terza stagione.

A 60 anni, l’ex Special ha scoperto di essere sempre più prigioniero dei giocatori (del loro livello tecnico, intendo) e della sua filosofia, sua di lui, che dai tempi delle manette e del triplete interista si è ridotta via via a una caccia rozza e spietata agli arbitri (pre-ventiva con Marcenaro, post-ventiva con Orsato), cosa che ha acceso e propagato alibi che hanno finito per consumare il poco gioco che c’era e, soprattutto, i nervi dei fedelissimi (l’invasato Mancini in testa).

Era sinceramente brutta, la sua Roma, appesa alla corda dei muscoli fragili di Dybala e alla stazza amletica di Lukaku. Eppure il popolo continuava a coccolarlo. Sold out su sold out per ringraziarlo della Conference, della finale di Europa League, di monologhi che cementavano l’orgoglio ferito del Romanismo. I tifosi. Non i padroni. Loro no. Distanti, assenti, ambigui. Americani attenti all’immagine, visto che altro non rimaneva.

E fra gli stessi curvaioli, qualcuno cominciava a scivolare fuori, triste, malinconico, come se si sentisse più traditore che tradito. Non lontano dalle ultime versioni di Chelsea (1 Premier, 1 Coppa di Lega), Manchester United (1 Europa League, Coppa di Lega) e Tottenham, Mou mi ha ricordato il Marziano di Ennio Flaiano. Al suo atterraggio a Villa Borghese, non lo si poteva avvicinare, tanta era la ressa di mamme con pargoli, nonni curiosi e aspiranti servi. Piano piano, però, ecco i primi «embé?», i primi «e allora?». E’ il destino dei Grandi: o tutto o niente.

Di largo muso

Roberto Beccantini13 gennaio 2024

Inter padrona: del gioco, degli episodi, dei gol (alla fine, 5-1). Non c’è stata partita, se non nella ripresa, per rari scorci, a risultato in ghiaccio. Subito al comando, la squadra di Inzaghi: rigore per mani-comio di Gagliardini (attaccato a LauToro, ma il braccio «alza» il volume), trasformato da Calhanoglu. Poi il capitano, di tap-in, su cross radente di Dimarco.

Una mezza spalla in offside toglie a Pessina la rete dell’1-2: anche qui, naturalmente, farina della Video assistenza. «Mancano», a Palladino, i Colpani (fiscale, il giallo-lampo inflittogli da Rapuano) e i Ciurria della scorsa stagione. Travi diventate pagliuzze.

Costretto dallo scarto a osare, il Monza s’impicca nel secondo tempo al contropiede degli avversari: Calha su assist di Thuram e, dopo i penalty di Pessina (contatto Darmian-Dany Mota) e Lau-Toro (tamponamento Akpa Akpro-Frattesi), il figlio di Lilian a pasta ormai buttata (Dan Peterson) e Caldirola tutto giù per terra.
I cambi hanno contribuito a ribadire la differenza. Sul mio podio: Mkhitaryan, il turco e Martinez, balzato a quota 18. Nel Monza, non uno che mi abbia eccitato (a cominciare da Gagliardini stopper): nemmeno Valentin Carboni.

Vi segnalo, sullo 0-3, il gesto tecnico di Alessandro Sorrentino, classe 2002, vice di Di Gregorio: un balzo felino a deviare il colpo di testa di Pavard. Il vento della «manita» se l’è portato via, ma fidatevi: è stata una gran bella parata. Sul serio.

Franz

Roberto Beccantini9 gennaio 2024

Per Paolo Sorrentino, «uno fa finta che il mondo era meglio prima, ma non è vero, è un alibi, eri tu che eri meglio prima». Non sempre. Non nel suo caso. Era meglio lui, di gran lunga. Franz Beckenbauer. Ci arrivo in ritardo per cumulo di ricordi. Gli devo il baule zeppo di emozioni che ha accompagnato i miei vent’anni, una secolo fa, quando le formazioni erano filastrocche e lo sport adesione, prima che evasione.

Il Kaiser. L’imperatore. Campione di tutto – di Germania, d’Europa, del Mondo – con il Bayern e la Nazionale. E del Mondo, anche da ct, nel ‘90, a muro di Berlino appena caduto. Grande Bayern, quel Bayern. Fra il 1974 e il 1976, la sua tripletta chiuse il triplete dell’Ajax, quando il calcio era tutto un formicolio di idee, di scintille. I lancieri di Cruijff, quelli del calcio totale. I panzer del Beck, quelli del calcio tradizionale. Ma che calcio, ragazzi. Beckenbauer. Prima centravanti, poi mediano, poi libero. Nei tempi in cui un austriaco, Rappan, aveva forgiato il catenaccio, e gli italiani lo avevano verniciato, decorato, da Foni al paron Rocco e al mago Herrera. Libero, sì, ma di rottura filosofica. Fu un’idea, non un’ideologia. Sopire e troncare, ma anche rifornire e attaccare. Non più un uomo sottratto al centrocampo, cosa che mandava in bestia Rivera, ma un difensore aggiunto.

L’eleganza della classe. La classe dell’eleganza. Dei nostri, colui che più lo ha avvicinato mi è parso Scirea. Più ancora di Franco Baresi. Il Kaiser aveva un non so che di Nureyev. Testa alta, piedi inguantati, due radar agli occhi. La foto che porteremo sempre dentro è però il braccio al collo di Messico ‘70. La spalla lussata e la maglia (finita in buonissime mani…) lacero-confusa. Eppure, anche lì, Sua altezza. Come se non fosse successo nulla. O nulla stesse per succedere. Invece.

Giocare alla Beckenbauer. Ecco: sembra una lapide, è il massimo.